SEVERINO BOEZIO 

Filosofo, poeta e politico, Boezio visse a Roma dal 480 al 524 d.C.. Figlio di un console, fu discepolo di Simmaco, colto patrizio romano, che si prese cura dell’educazione del giovane, dandogli anche in sposa la propria figlia. Durante il periodo di presenza gota in Italia, Boezio si dimostrò il tipico rappresentante di quella nobiltà colta latina che appoggiò il re Teodorico nel tentativo di realizzare un’equilibrata convivenza tra il popolo goto e quello romano. Collaborò con Teodorico, il quale gli affidò incarichi importanti e delicati: fu console nel 510 e principe del Senato. Quando, però, il re goto mutò politica nel timore che la nobiltà romana e il vescovo di Roma tramassero con l’imperatore d’Oriente contro di lui, Boezio cadde in disgrazia e venne condannato a morte.

Boezio è stato definito al tempo stesso l’ultimo dei Romani e il precursore della Scolastica: era infatti un Romano estremamente affascinato dalla filosofia greca. Si sforzò di conservare la conoscenza del greco nel mondo latino, attraverso traduzioni e commenti (soprattutto del Corpus di Aristotele). A lui dobbiamo anche diverse opere che riguardano i primi problemi cristiani, in quanto si distinse per la sua vigorosa fede.

 

La consolazione della filosofia

Durante la prigionia (fra il 523 e il 524 d.C.) Boezio fu capace di comporre quest’opera, che oggi è considerato uno degli ultimi frutti della cultura greco-romana, sulla filosofia come potenza consolatrice delle sventure umane.

La <consolatio> si presenta sotto forma di prosa alternata a versi ed è divisa in cinque libri. Tutto è incentrato sul dialogo tra l’infelice esule che si dispera della sua triste condizione, nella solitudine della prigionia, e la Filosofia, apparsa all’autore sotto forma di donna per guarirlo dall’assillante tormento interiore. Il pensiero di Boezio non è mai stato considerato molto originale, infatti “La consolazione della filosofia” è una sorta di sintesi del pensiero etico classico ed ha quindi il grande merito di averlo trasmesso e di averne favorito la diffusione nel Medioevo.

 

  -LIBRO I: Non appena Boezio riconosce la donna, apparsagli, come la  “nutrice” compagna della sua giovinezza, ella cerca subito di allietarlo ricordandogli le ingiustizie che tanti pensatori hanno dovuto subire; poi lo invita a sfogare il proprio dolore affinché lei possa curarlo e indicargli la giusta via. Boezio, perciò, mette a nudo tutta la sua infelicità come conseguenza della disastrosa condizione umana in contrasto con l’ordinato equilibrio del cielo. Perciò la Filosofia intravede un vuoto attraverso il quale si è insinuato nell’animo di Boezio il male del turbamento, in quanto egli si è dimenticato quale sia il fine delle cose e da quali strumenti il mondo sia retto e, per di più,  giudica potenti e fortunati gli uomini malvagi.

  -LIBRO II: Ha, quindi,  inizio l’opera benefica della Filosofia con l’aiuto della Retorica e della Musica. Ella esorta l’infelice a diffidare dei favori della fortuna, perché, in quanto instabile, non può portare alla realizzazione della felicità: “…in che modo, infatti, con la sua presenza, può rendere felici gli uomini una condizione fortunata la cui assenza non li può rendere felici?” (I, 5°). Boezio è perciò concorde che sia più vantaggiosa una sorte avversa, che rende consapevoli, piuttosto che una sorte prospera, che fornisce solo fallaci illusioni.

  -LIBRO III: La Filosofia annuncia a Boezio che è giunto il momento di parlare con estrema chiarezza all’animo di lui, che ormai è ben disposto a ricevere i suoi più importanti precetti: quelli che lo condurranno alla vera felicità, definita come lo stato di perfezione conseguente alla presenza di tutti i beni. La Filosofia si accinge quindi a definire quali siano i caratteri della felicità umana; ogni uomo vede la felicità in quella condizione a cui egli aspira al di sopra di tutte le altre (ricchezze, onori, potere, gloria, piaceri del corpo). Tramite un vasto ragionamento, la Filosofia riesce a far capire a Boezio che da nessuna di queste cose deriva la felicità e che dunque sono soltanto delle immagini illusorie di essa. Ne viene dunque che, se tutto ciò che è un bene terreno non è un bene vero, il sommo bene si identificherà necessariamente con Dio, a cui tutti dovranno aspirare per essere davvero felici.

  -LIBRO IV:  Boezio si pone quindi una logica domanda, che da sempre pone l’essere umano nell’incertezza: da dove viene, dunque, il male che attanaglia il mondo? Con quale criterio è fatta la ripartizione dei beni,  che sembrano andare più verso i malvagi che verso i buoni? La Filosofia lo conduce alla ragione portandolo a riconoscere che i beni dei cattivi non sono veri beni e che le infelicità dei buoni sono utili per la loro salvezza.

 -LIBRO V: I due si avviano ad un altro problema; si tratta stavolta della questione sul rapporto tra libero arbitrio e prescienza divina.

 

TEMI  FILOSOFICI PRINCIPALI

  -LA FORTUNA: Chi si affida alla fortuna deve stare al suo gioco (Non si può chiedere di fermare qualcosa che è nato per mutare). Se la fortuna regala qualcosa, l’uomo che riceve deve ricordare che tale cosa non è sua , in quanto è giunta dall’esterno; se la fortuna si riprende ciò che ha regalato, ricorda che si è ripresa un qualcosa di suo. E’ quindi  inutile incolparla, siamo noi che dobbiamo diffidarne.

  -L’AVERE: Il fatto di possedere qualcosa non potrà mai rendere felice qualcuno: il denaro infatti non possiamo possederlo appieno perché è utile solo quando è in circolazione, le gemme sono prive di organizzazione spirituale e di raziocinio quindi non paragonabile alla bellezza dell’uomo e le bellezze naturali sono belle in sé e quindi non relazionate al fatto che noi le possediamo oppure no. La felicità che viene dalle cose terrene è tale che toglie la felicità perché chi non ha, vorrebbe, chi ha, non si accontenta in quanto chi moltissimo ha di moltissimo ha bisogno.                         

  -LA FELICITA’ UMANA: Ogni uomo si prefigge una meta da raggiungere nella sua vita: autosufficienza, potere, rispettabilità, fama, gioia. Queste sono le cose che gli uomini vogliono ottenere e per questo essi vanno in cerca di (rispettivamente) ricchezze, regni, cariche, gloria e piaceri, pensando che attraverso essi potranno giungere alla felicità; ma analizzando bene ci si può accorgere che non è così.

Le ricchezze, invece di rendere autosufficienti, rendono bisognosi della protezione altrui per difendere esse stesse. Inoltre esse non possono placare i bisogni primari (fame, sete, freddo, ecc.) che, abituati ad essere sempre saziati, fanno sì che l’individuo sia dipendente delle proprie ricchezze.

Il fatto di regnare non dà necessariamente potere in quanto è causa di infinite insicurezze. Infatti non si può giudicare potente uno che si circonda di guardie del corpo, che per apparire potente si mette nelle mani dei suoi servitori e che addirittura ha paura di coloro a cui vuole far paura (infatti un re dovrà sempre avere a che fare con coloro che non sono sottomessi al suo <potere>.

Le cariche pubbliche non rendono stimabile (e quindi rispettabile) chi ne è insignito se esso non è retto: se uno è saggio non si può ritenerlo che saggio e,  se è in carica,  la sua saggezza sarà fonte di rinomanza per lui; ma se uno è ingiusto, anche se ottiene la carica, resta tale, anzi aumenta l’odio provato contro di lui, perché esso diviene noto a molti.

La fama, poi, spesso porta a far grandi (agli occhi della gente) degli uomini insignificanti, che, non meritando tale gloria, saranno i primi a vergognarsi di tanta approvazione. Se invece si tratta di una gloria meritata, esso non ha bisogno della fama perché misura il proprio valore sulla realtà della propria coscienza e non con il metro della popolarità. Se poi si tratta di voler garantirsi l’immortalità, mantenendo la propria memoria presso i posteri, ha più importanza lasciare che la propria anima si alzi libera al cielo con sicura coscienza di sé.

I piaceri sono le ultime cose che potrebbero condurre alla gioia e quindi alla felicità: come potrebbe mai essere felice una persona che si fa schiavo del corpo, che come tutti sanno è fugace e caduco? Inoltre i piaceri riempiono di ansietà e quando se ne è sazi provocano rimorso.

  -LA VERA FELICITA’: La vera felicità si troverà necessariamente nell’opposto della falsa felicità e, se quest’ultima si divideva in autosufficienza, potere, rispettabilità, reputazione e gioia, la vera felicità, invece, racchiude tutti questi elementi dentro di sé, rappresentando il sommo bene (vedi PASSI SIGNIFICATIVI). Ma essendo tutte cose mortali hanno bisogno, per dare davvero felicità, di una direzione verso cui andare: devono dirigersi verso Dio. Infatti, Dio è buono, perché non si può concepire nulla di più buono; Dio è il perfetto bene, sennò non sarebbe il fondamento di tutto e, se è il perfetto bene, è lui la vera felicità. Cosicché se gli uomini sono felici quando raggiungono la felicità, saranno felici quando raggiungono Dio. Ogni persona è felice quando è Dio (infatti si sa che c’è un solo Dio, ma per partecipazione ce ne possono essere moltissimi).

  -IL MALE: Ma anche se il mondo è retto dal sommo bene gli uomini sono sempre a lamentarsi del male che li circonda, perché non si rendono conto di come stiano veramente le cose. Infatti, non si accorgono che i buoni sono sempre potenti e felici, mentre i malvagi deboli e spregevoli. Considerando che le azioni umane si basano su due  presupposti (la volontà e la capacità), ognuno dei quali non può fare a meno dell’altro, è chiaro che chi riesce a realizzare quello che voleva, aveva le capacità per farlo. Perciò, visto che ogni uomo tende a raggiungere la felicità, ovvero il sommo bene, solo i buoni sono potenti, perché hanno raggiunto il bene, mentre i cattivi si sono dimostrati incapaci di mettere in atto il loro scopo. E questo è determinato soprattutto dal fatto che l’uomo buono ricerca il bene attraverso la via naturale (virtù), invece il cattivo attraverso vie svariate (passioni).Ma i cattivi, allontanandosi dal bene, non cessano solo di essere potenti, ma cessano addirittura di essere. “…E’, infatti, ciò che si mantiene nella propria condizione e conserva la propria natura; quello che invece si stacca da questa, abbandona anche l’essere che è insito nella sua natura” (IV, 2).

Inoltre, i vizi non restano mai senza punizione, né le virtù senza premio: infatti, quando si fa una cosa, il fine dell’azione coincide con la ricompensa, pertanto il bene stesso è stato assegnato come comune ricompensa per le azioni umane. I buoni, quindi, sono premiati del solo fatto di essere buoni, ed essi rimarranno privi della loro ricompensa solo quando cesseranno di essere buoni. E’ inutile aspettarsi un qualche premio dall’esterno (come potrebbe essere l’onore) perché potrebbe essere sottratto in qualsiasi momento.

Accettando però l’ipotesi che i cattivi  non siano puniti abbastanza per i loro delitti, gli uomini devono comprendere che i malvagi sono più felici se subiscono una punizione e che, se impuniti, rimangono in uno stato degradante di infelicità (vedi PASSI SIGNIFICATIVI).

E gli uomini sarebbero ancora più felici se capissero che le azioni malvagie in verità non sono niente: infatti, non dubitando che Dio è onnipotente e che non c’è niente che non possa fare, il male pertanto è nulla, poiché non può commetterlo colui che tutto può. Se, poi, i buoni si trovano ad affrontare mille difficoltà, devono solo ricordarsi che ciò è utile per la loro salvezza.

  -LA PROVVIDENZA DIVINA E IL FATO: L’origine delle cose trae la sua causa dalla mente divina. Essa determina la molteplice modalità in cui gli eventi si svolgono. Questa modalità è detta intelligenza divina o provvidenza, che dispone tutto e determina lo svolgersi degli eventi. Il fato invece sovrintende l’attuarsi delle cose preordinate nella molteplicità e nel tempo. Quindi la provvidenza è la forma semplice delle cose che devono essere compiute (ed è vicina a Dio), il fato è il concatenamento mutevole e l’ordine temporale di tutto ciò che è stato disposto da Dio (ed è vicino agli uomini). Tutte le cose, mentre agli uomini appaiono confuse, in realtà obbediscono ad una loro norma, che le orienta verso il bene.

   -IL CASO: Posto che Dio assoggetta all’ordine tutte le cose, può essere lasciato spazio alla casualità? Ogni volta che si fa qualcosa per raggiungere uno scopo e, per determinate cause, si ottiene un esito diverso da quello proposto, questo è detto caso.

  -IL LIBERO ARBITRIO: Se, dunque, tutto è già predisposto dalla provvidenza, che peso ha il libero arbitrio? La contraddizione tra libero arbitrio e provvidenza non esiste, poiché Dio vede gli eventi che per gli uomini sono futuri, senza condizionarne la natura ed il verificarsi, che è libero se si tratta di atti umani. Infatti, Dio, con il solo intuito conosce fino in fondo sia quel che avverrà necessariamente sia quel che avverrà non necessariamente: come noi, quando vediamo contemporaneamente un uomo che cammina ed il sole che sorge, distinguiamo l’una e l’altra cosa e giudichiamo volontaria la prima e necessaria la seconda. Quindi avverranno con certezza tutte le cose che Dio conosce in anticipo che avverranno, come il sole che sorge ancor prima che accada, ma alcune di esse scaturiscono dal libero arbitrio, come l’uomo che cammina, che è mosso dalla volontà di colui che compie l’azione.

Quindi agli uomini resta intatto il libero arbitrio, poiché le loro volontà sono libere da qualsiasi necessità, anche se soggette a leggi che stabiliscono pene o premi, e Dio, guardando dall’alto, conosce tutto.

 

PASSI SIGNIFICATIVI

  -LIBRO III, paragrafo 9: Una volta approvato che l’autosufficienza non può venire dalle ricchezze, né il potere dal fatto di regnare, né la rispettabilità dalle cariche, né la reputazione dalla fama, né la gioia dai piaceri, la Filosofia si introduce in un discorso piuttosto complesso per far capire a Boezio l’indivisibilità della felicità, con un metodo di argomentazione che, più o meno, si ripete in tutta l’opera.

 

Se un qualcosa è autosufficiente, non ha bisogno di potenza, perché se manca di potenza (è quindi debole) in qualche sua parte, ha bisogno dell’aiuto altrui e non è più autosufficiente.

Ciò che possiede queste prerogative gode del rispetto degli altri, perché è considerato tutt’altro che spregevole e capace di distinguersi nelle varie situazioni. 

Una cosa così non resta certo oscura ed ignota ma diviene insigne per fama e celebrità.

Una persona con queste qualità sarà anche sommamente lieta perché in un essere di questo genere non si può neppure immaginare dove possa insinuarsi una qualche afflizione.

AUTOSUFFICIENZA, POTENZA, RISPETTABILITA’, FAMA, GIOIA NON DIFFERISCONO DUNQUE PER NULLA NELLA SOSTANZA.

Perciò l’uomo commette l’errore nel momento in cui tenta di raggiungere una parte di una cosa che è priva di parti, quando tenta di fare a pezzi ciò che è unitario e semplice. Essendo infatti queste qualità identiche tra loro, chi ne voglia una senza le altre non ottiene neppure questa. (ESEMPIO A PAG. 221, 223)

 

  -LIBRO IV, paragrafo 4: “In realtà, i malvagi, quando realizzano i loro desideri sono inevitabilmente più infelici di quando lo sarebbero se non potessero mettere in atto i loro progetti…” . Infatti oltre ad aver colpa nella volontà, ne hanno anche nella capacità.

“E io giudicherei costoro infelici al massimo grado, se non ci fosse almeno la morte che, in fine, pone termine alle loro malvagità.” Infatti se l’iniquità rende infelici, chi è iniquo più a lungo è più infelice.

“I malvagi sono più felici quando ricevono una pena che se non sono colpiti da castigo alcuno ad opera della giustizia”. Infatti se alla malvagità viene mescolato un po’ di bene, essa sarà sicuramente migliore di una condizione di infelicità assoluta. Considerando che la giustizia è un bene e che il castigo è uno strumento delle giustizia, chi riceve una pena riceve una parte di bene.

Quindi chi subisce un torto non è più infelice di chi lo fa, ma gli uomini sembrano ragionare in maniera completamente opposta, infatti anche gli avvocati cercano sempre di suscitare compassione nei giudici per le vittime (LEGGERE PAG, 301, 303), mentre ne avrebbero bisogno i cattivi. ”Come la debolezza per il corpo, così la disposizione per il vizio costituisce una malattia dello spirito: perciò se i malati nel corpo li giudichiamo niente affatto meritevoli di odio, ma piuttosto di compassione, a maggior ragione non si devono trattare ostilmente, ma semmai compassionare, coloro le cui menti sono tormentate dalla malvagità, malattia ben più grave di qualsiasi esaurimento fisico.”